Galina Zyz è sorella della carità nel monastero di Santa Elisabetta da diciassette anni, di cui quindici dietro al banco di un'agenzia di pompe funebri nella città di Minsk. Passa la maggior parte della sua giornata lavorativa a parlare con persone in lutto per la perdita dei loro cari. L'abbiamo intervistata sulla sua obbedienza, sugli incontri che hanno cambiato la sua vita e sulla sua crescita nella fede come sorella del monastero di Santa Elisabetta. Ecco la sua storia
Parlaci della tua attuale obbedienza. Cosa trovi di più difficile e cosa invece ti dà speranza e certezza ?
Lavoro in un'impresa di pompe funebri come sorella della carità. Vi sono arrivata prima ancora di entrare nella sorellanza. Fu dopo la morte di mio padre, malato di cancro. Ricordo di aver visto l'icona del Salvatore. Aveva attirato la mia attenzione e rimasi a lungo in piedi davanti ad essa solo per contemplarla. Quando mi mandarono a lavorare alle pompe funebri , non mi opposi. Mi ricordai di ciò che la nonna mi aveva insegnato da bambina: "Se c'è un lavoro da fare e sei costretta a farlo, non perdere tempo con i tuoi dubbi. Mettiti al lavoro e continua ad eseguirlo finché non lo avrai terminato. E prega Dio che ti dia la forza necessaria ".
Quando qualcuno viene da me affranto dal dolore, devo poterlo consolare e fare del mio meglio per aiutarlo a rendere gli ultimi onori al suo defunto in modo cristiano. Dopo diciassette anni di vita nella sorellanza, mi preoccupo ancor oggi ogni volta che vengo a sedermi alla mia scrivania in parlatorio. Chiedo a Dio di insegnarmi cosa dire - mi rendo conto che sono responsabile di ogni parola che esce dalla mia bocca. Devo fare attenzione per aiutare le persone e non aggravare invece il loro dolore.
Oltre alla preghiera, l'altra mia fonte di sostegno sono i miei colleghi. Anche solo un incontro con alcuni di loro mi dà un’energia duratura. Hanno tutti una bellezza interiore che può non essere visibile alla gente, ma lo è a Dio. Eccone un esempio: io incomincio il lavoro alle 9.30 e il turno di notte finisce alle nove. Una volta arrivando sul posto di lavoro trovai un giovane del turno di notte che mi aspettava. "Ti stavo aspettando. Puoi aiutarmi a fare una richiesta di preghiera di quaranta giorni per Olga, l’ultima defunta?” Aveva lavorato tutta la notte ed era rimasto mezz'ora in più per chiedere di pregare per qualcuno che nemmeno conosceva.
Come hai percepito la presenza di Dio nella tua obbedienza?
Nel corso degli anni, ho notato che alcuni, pur impegnandosi molto nell'organizzazione del funerale di un prossimo, ottengono una cerimonia insoddisfacente. Altri invece sembrano occuparsene molto poco e tuttavia la cerimonia si svolge senza problemi. Parlando con gli interessati, scopro che spesso i funerali dei credenti tendono a svolgersi più serenamente di quelli dei non credenti. Mi è successo d’intravvedere una luce divina provenire da alcune persone nonostante il loro dolore. "Per fortuna, nostra madre ha fatto la comunione e ha ricevuto l'estrema unzione prima della sua dipartita", dicevano con il cuore sereno e in pace, fiduciosi che avrebbero rivisto i loro cari nell'eternità.
Mi ricordo di un uomo che mi aveva avvicinato nel corso della mia obbedienza. Era giovane e aveva perso l’ex moglie e i due figli in un incidente stradale. Era un neurochirurgo. Ciò che mi disse allora risuona ancora nel mio cuore: "A volte, entrando in sala operatoria, so che il mio paziente è un credente e che molte persone stanno pregando per lui. Nella Sua grande misericordia, Dio sposta i limiti della nostra percezione umana e ci rivela i molteplici legami invisibili che ci uniscono tramite la preghiera".
Alcuni incontri nella nostra vita ci portano alla fede o rafforzano quella che già abbiamo. Hai mai avuto questa esperienza? In caso affermativo, raccontaci qualcosa.
Da bambina volevo diventare insegnante. Mi interessava lo spagnolo. Ma, dopo il diploma in un istituto professionale, sono andata a lavorare in un negozio. Un giorno, un’altra impiegata si aggiunse al nostro gruppo di lavoro. Qualcuno mi disse che era una fervente credente e aveva ragione. Questa persona aveva infatti una fede viva e divenne mia amica intima, modello e guida spirituale. Era calorosa e generosa, e io la chiamavo affettuosamente “nonna”. Credo che abbia pregato molto per me.
Era eccezionale. Tutti le chiedevano consigli. Le sue risposte erano sincere e non faceva distinzione tra dirigenti e operai. Rispondeva con così tanto amore che nessuno si offendeva mai. Era premurosa, attenta e sempre pronta ad aiutare: vera immagine vivente di Dio.
Un giorno qualcuno le rubò il portafoglio dalla borsa della spesa. La mia prima domanda fu: "Quanti soldi c’erano dentro?". "Il problema non sono i soldi ma la tentazione. Avrei dovuto mettere il portafoglio più in fondo e chiudere la borsa. Non l'ho fatto, e ho provocato la tentazione. Te lo puoi immaginare? Qualcuno è stato tentato, non ha potuto resistere e ha preso il portafoglio". In un’altra occasione, la “nonna” aveva messo una poltrona ad asciugare sulla strada. Poco dopo, guardando fuori, vide qualcuno che caricava la sua poltrona su un camion. "Perché non hai gridato? Perché non hai detto loro di fermarsi?" le chiesi. "Forse ne avevano più bisogno loro di me", mi rispose.
Con il suo esempio mi ha portata a Dio ed è diventata la mia guida nella fede.
Cosa ti hanno insegnato gli anni trascorsi nella sorellanza sulla crescita spirituale e personale?
Ho passato molto tempo a riflettere su cosa significasse essere una sorella della misericordia. Mi sono resa conto che la chiave per essere veramente sorella di carità era la disponibilità a visitare e aiutare i malati, i disabili e tutti i bisognosi. Mentre guardavo le altre sorelle al lavoro, mi son ricordata di situazioni in cui alcune persone avevano bisogno di aiuto ed io ero in grado di offrirlo loro. Perché non l'avevo fatto? Ero disposta ad aiutare, ma ero troppo timida per chiedere alle persone di cosa avessero bisogno; avevo paura di ferire o di creare confusione. Temevo che qualcuno si sarebbe offuscato pensando che io stessi meglio di lui. Nella sorellanza ho lavorato con diverse persone. Ora nel portare il mio aiuto ho cambiato atteggiamento. So che devo preoccuparmi meno di quello che gli altri potrebbero dire e che devo invece chiedere la benedizione di Dio e rimboccarmi le maniche. Ho anche imparato ad apprezzare il sentimento comunitario e di vicinanza che scaturisce in me ogni volta che vado al monastero. È una vera benedizione partecipare ad una sinassi e ascoltare le parole di padre Andrea. Il sentimento di comunione in questi momenti è notevole. Andare in chiesa, confessarsi e fare la comunione porta gioia e pace nel cuore. Lo stesso vale per le preghiere. Prego i santi, invocando il nome della patrona del monastero, santa Elisabetta Romanov e della sua assistente suor Barbara. Per me, sono inseparabili. Unirmi alle suore nella preghiera o nel lavoro mi dà conforto. Sono attratta dal monastero in ogni momento della mia vita, nel dolore e nella gioia.
Non ho mai pensato di lasciare il mio lavoro o la sorellanza, nemmeno per un attimo. Quando il pensiero di abbandonare viene ad altre sorelle, ricordo sempre quello che mi diceva la nonna: "Prega Dio che ti dia la forza di sopportare".